di Domenico Palmiotti
Davanti ad un giovane di 25 anni che muore sul lavoro, davanti ad ogni vita che si spezza in una fabbrica o in un cantiere edile, c’è poco da dire. Non c’è commento che tenga difronte all’ampiezza della tragedia. Le parole non leniscono il dolore, non attenuano la sofferenza.
A Taranto, poi, l’incidente di ieri all’Ilva suscita subito due reazioni. La prima: rivediamo un film già visto tante altre volte. Troppe volte. La seconda: insieme alla sfiducia e alla rabbia, prende corpo la consapevolezza, o la paura, di trovarsi sempre allo stesso punto e di come ogni volontà di cambiamento - lavorativo, ambientale, organizzativo - sia destinata purtroppo a rimanere vana.
Ma sarà sempre così? Meglio: ma davvero dev’essere sempre così? I Riva che hanno guidato la fabbrica sino ai primi del 2013 sono stati accusati di disastro ambientale e ora sono sotto processo in Corte d’Appello. Anche nella loro gestione, come in quella precedente dell’Italsider di Stato, i morti sul lavoro non sono mancati.
Il fatto che lo Stato, attraverso i commissari, abbia poi deciso di prendere le redini dell’acciaieria ha fatto pensare alla possibilità di un percorso diverso: più tutele, più garanzie, più certezze di futuro. Ma non un di più, un dono, un’elargizione, quanto il riconoscimento di diritti sacrosanti.
Di attese fondamentali. Di necessità indiscutibili. A qualche anno dal commissariamento vediamo invece che ci sono ancora difficoltà molto serie e che soprattutto il tema della sicurezza e della tutela della vita e della salute non ha avuto quel radicale cambio di impostazione che ci si aspettava.
Contare un altro morto a distanza di un anno dall’incidente all’altoforno 2, è angosciante. Drammatico. Non diremo ora si chiuda tutto, basta, si fermi ogni cosa, ma una cosa vogliamo sottolinearla: non è più tempo di indugiare, nè di rinviare. Stavolta tutto non può limitarsi allo sdegno di giornata.