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Il Commento- L'eredità giudiziaria del colosso d'acciaio - di Mimmo Mazza

 
Franco Giuliano

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Franco Giuliano

Mercoledì 10 Febbraio 2016, 17:03

17:19

di MIMMO MAZZA

C’è un enorme nodo giudiziario da sciogliere per chiunque si assumerà l'onere di rilevare la gestione dell'Ilva dai commissari nominati dal governo Renzi. Un nodo giudiziario che ha un lato saldamente ancorato a Taranto, giacché gli impianti dell'area a caldo sono tutt'ora sotto sequestro per reati gravissimi, e un altro ben fermo a Roma, con il Tar del Lazio che dovrà pronunciarsi sui ricorsi presentati dagli azionisti dell'Ilva che, non senza ragioni giuridiche, lamentano l'esproprio subito praticamente in contumacia.

Il 26 luglio 2012 cokerie e altiforni furono sequestrati dal giudice per le indagini preliminari Patrizia Todisco, su richiesta della Procura, in quanto sospettati di essere fonte di malattie e morti per operai e cittadini.

Quel sequestro fu impugnato dai legali dell'azienda al tribunale del riesame che lo confermò. Poi, avuto il via libera dal Governo Monti riguardo la facoltà d'uso degli impianti, la famiglia Riva scelse di non ricorrere in Cassazione e i sigilli divennero definitivi. È evidente che non si può vendere un bene sotto sequestro, tantomeno se quel sequestro è finalizzato alla confisca del bene stesso. Malgrado proclami e annunci, mai - dicasi mai - negli uffici giudiziari di via Marche si è presentato un legale dell'Ilva né tantomeno un esponente del Governo con una istanza di dissequestro.

I tre commissari governativi nel luglio scorso annunciarono che l'80% dei lavori previsti dal piano ambientale erano stati compiuti ma, chissà perché, non è stato di conseguenza chiesto il dissequestro del corrispondente 80% degli impianti malgrado, come annunciato, il piano ambientale serva proprio a mettere a norma l'acciaieria più grande d'Europa. La verità è che il confronto con la magistratura tarantina è sempre stato accuratamente evitato nelle sedi proprie, preferendo giocare di decreto (e sono ben 9 quelli salva azienda varati negli ultimi tre anni) quando la situazione stava per precipitare.

Chi si prenderà in carico il fardello Ilva dovrà però cambiare marcia da questo punto di vista e dirimente sarà il contenuto del nuovo piano ambientale e industriale che il governo ha esplicitamente demandato ai nuovi gestori-proprietari. È evidente che se, come sembra, si affermerà una linea vicina a quella suggerita dal presidente della Regione Puglia Michele Emiliano, che vuole un'Ilva decarbonizzata, nel nuovo piano aziendale non ci sarà il rifacimento dell'altoforno numero 5, il più grande d'Europa, chiuso nell'estate scorsa perché arrivato a fine ciclo, e dunque nessuno di conseguenza avrà interesse a chiederne il dissequestro.

Stessa cosa dicasi per i parchi minerari che, con un assetto comprendente i tre attuali altiforni in marcia e due forni elettrici al posto di Afo5, sarebbe ridotto o potrebbe quasi del tutto sparire, eliminando il problema - del valore economico di almeno 200 milioni - della sua copertura e dunque facendo sparire quelle polveri che periodicamente imbrattano il quartiere Tamburi. E così via, fino a giungere ad un piano di dissequestro finanziato, sostenibile e accettabile dalla magistratura. Certo, il mancato, come dire, riscatto di impianti sequestrati e non ritenuti più funzionali alle esigenze della nuova Ilva, farebbe sorgere nell'area del siderurgico una sorta di cimitero industriale non reclamato, né tantomeno curato, da nessuno ed anche questo è un aspetto che andrà seguito con attenzione.

Al Tar del Lazio, invece, occorrerà guardare per capire l'esito dei ricorsi presentati da Riva Fire, dalla famiglia Riva e dal gruppo di origini baresi Amenduni, tutti azionisti Ilva, contro l'esproprio, avvenuta in assenza di sentenze definitive (anzi da tutt'oggi perfino di un rinvio a giudizio, premesso che gli Amenduni non sono mai stati coinvolti nelle inchieste sul siderurgico tarantino) e l'avvio della procedura di vendita. Non sappiamo se il Tar bloccherà tutto il programma del Governo e se prevarrà la ragion di Stato rispetto a quella dei proprietari ma nulla si può escludere su questo fronte.

Tradurre gli slogan di Renzi («Non permetteremo alle lobby internazionali dell'acciaio di far chiudere l'Ilva» uno dei refrain più utilizzati) in atti concreti, che vadano oltre il semplice fitto di impianti inquinanti e sequestrati: è questa la vera sfida che attende l'Ilva, le nove società ad essa collegate, e le decine di migliaia di operai che ci lavorano tra Taranto, Cornigliano e Novi Ligure. La grande fabbrica non ha più bisogni di gestori provvisori - ed è il rischio che si corre se come pare la cordata guidata dalla Cassa Depositi e Prestiti chiederà il fitto dell'azienda - ma di una proprietà solida, in grado di rispondere e provvedere direttamente alle varie incombenze, giudiziarie comprese, perché una acciaieria non più sotto sequestro significherà per tutti, a partire dai bambini di Taranto evocati nei manifesti affissi da qualche giorno anche a Genova, una acciaieria non più fonte di malattie e morti ma luogo di lavoro, sviluppo e progresso.

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