Il cambio di strategia di gestione dei prigionieri fu dovuto a motivi essenzialmente economici. Mentre la gran parte degli inglesi adulti era sotto le armi, nelle fabbriche, nelle officine e nelle campagne la mano d’opera scarseggiava. Le autorità britanniche, dunque, dovettero affidarsi ai prigionieri di guerra, soprattutto a quelli italiani che erano ritenuti più tranquilli e meno pericolosi rispetto ai tedeschi. In Inghilterra furono creati circa 530 campi di internamento. Solitamente gli italiani, che lavoravano in agricoltura o accudivano il bestiame, godevano di un trattamento soddisfacente e di una certa libertà. Disponevano di alloggi in campi ben attrezzati, avevano cibo a sufficienza, fruivano della tutela delle convenzioni internazionali riguardanti i prigionieri di guerra ed erano assistiti dalla Croce rossa internazionale.
Rispetto a situazioni di prigionia verificatesi durante la seconda guerra mondiale in altri paesi belligeranti, quella inglese risultò decisamente più accettabile e meno drammatica. Gli aspetti negativi del «soggiorno» inglese, furono, in primo luogo, quelli discriminatori (gli italiani venivano considerati razzialmente inferiori) e, in secondo luogo, quelli relativi al prolungamento della prigionia anche dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Gli italiani, in pratica, furono rimpatriati solo a cominciare dall’inizio del 1946, a conclusione del nuovo raccolto di barbabietole da zucchero e di altri prodotti agricoli. A parte questi aspetti, i prigionieri italiani, vestiti con divisa militare con la scritta «Prisoner of war - Italy», soprattutto nella seconda parte del conflitto potevano frequentare i pub, i cinema e gli altri locali pubblici eventualmente esistenti nei centri abitati a ridosso dei campi di internamento. Disponevano anche di una piccola paga che utilizzavano come meglio credevano. [ros.fag.]