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Il ricordo del pittore Marotta: «Gli anni ruggenti con Carmelo»

 

Giovedì 15 Marzo 2012, 11:25

03 Febbraio 2016, 00:37

di TOTI CARPENTIERI

Nell’ambito del “Festival Carmelo Bene”, da questa sera alle 17,30 a Otranto, nel Castello aragonese, sono esposti i sei dipinti realizzati da Gino Marotta per Carmelo Bene oltre che scritti autografi, foto originali e oggetti a lui appartenuti. All’artista che conosciamo dai nostri anni romani di metà Sessanta, in un affollarsi di fisionomie e rapporti: Pascali, Bene, Patroni Griffi, Caputo, Kusterman e Nanni, Marchegiani, Fusco, Ceroli, Nuele, e di cui rammentiamo, ben oltre le tante rassegne da “Bianco+Bianco” a il “Teatro delle Mostre”, le sculture-costumi e le scene per il film “Salomè” di Carmelo Bene presentato alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia del 1972 e le ulteriori collaborazioni per “Nostra Signora dei Turchi” e “Hommelette for Hamlet”, abbiamo chiesto come e quando è nato il rapporto con Carmelo. 

«Nella Roma degli anni Sessanta e Settanta, alcuni finissimi intellettuali rendevano possibile un grande esercizio di libertà in un clima bacchettone e intransigente che emarginava le persone dotate di maggiore talento. Mi incuriosì la leggenda metropolitana che segnalava la presenza di uno strano teatrante che recitava nelle cantine e stravolgeva qualsiasi testo mettesse in scena. Volli verificare e al primo incontro ebbi la percezione che si trattava di una grande personalità, di un artista più rigoroso che stravagante e pienamente padrone delle sue eccezionali qualità». 

E su quali linee si è sviluppato nel tempo? «Occuparci ciascuno dei problemi dell’altro fu assolutamente naturale e questo interesse cresceva ogni volta che Carmelo parlava di teatro e io di pittura. Ricordo con emozionata nostalgia le serate trascorse insieme a montare e smontare congegni spettacolari che sono diventati dei riferimenti obbligati del teatro moderno: irripetibili cortocircuiti di intelligenze». 

Negli anni Settanta qual’era, a Roma, il dialogo tra le arti visive e il teatro e il cinema? «Innanzi tutto il sodalizio tra me e Carmelo, e poi altri casi significativi, anche se molto differenti, come l’allestimento del “Riccardo III” di Luca Ronconi con le scene di Mario Ceroli. In quegli anni dirigevo l’Accademia di Belle Arti dell’Aquila, e Carmelo aveva la cattedra di Regia. Sono rimaste memorabili le sue lezioni su Eliogabalo e la ricerca su la Baigneuse di Ingres che coinvolse quasi tutta l’Accademia». 

Cosa hanno significato, per te, “Nostra Signora dei Turchi” e “Salomè”? «Salomè e Nostra Signora dei Turchi sono due casi di dirompente modernità dovuti al coinvolgimento di due personalità che hanno messo in comune tutti i materiali che la sperimentazione nei singoli campi forniva loro, nel tentativo di ampliare i margini delle possibilità espressive». 

E quale il senso del Premio Ubu, con feritoti per “Hommelette for Hamlet”? «Il Premio Ubu mi ha fatto evidentemente piacere, anche perchè una giuria altamente qualificata si era accorta della importanza in quest’opera della dimensione figurativa che assume un ruolo drammaturgico». La mostra è curata da Raffaella Baracchi Bene e da Salomè Bene con il sostegno della Provincia di Lecce.
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