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E Dio benedisse i poliglotti sapienti

E Dio benedisse i poliglotti sapienti

 
Michele Mirabella

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Michele Mirabella

E Dio benedisse i poliglotti sapienti

«Ma la specificità identitaria è ricchezza, è varietà e pluralità di percezioni ed espressioni del mondo»

Domenica 12 Maggio 2024, 12:20

È nota la ritrosia degli Italiani per lo studio e la pratica delle lingue straniere incoraggiata dalla gracile attenzione che la scuola riserva al loro insegnamento. Se così non fosse, leggeremmo direttamente in tedesco la massima di Goethe: «Chi non sa le lingue straniere non sa niente della propria». L’attuale parlata italiana corriva conferma sconsolatamente. I crudeli maltrattamenti della sintassi e, addirittura, quelli non infrequenti della grammatica, confusi con la rustica semplificazione del lessico, fanno risuonare, nella bella terra dove il «si» suonava, una parlata gergale e rachitica, inespressiva e priva di bellezza. Sarà perché non conosciamo, che so, l’Inglese? Eppure, lo usiamo tanto, troppo. Gli anglicismi spropositati e, sovente, ingiustificati lardellano la lingua nostra senza utilità alcuna, solo per pretesto e per esibire una modernità accattona e camuffare la sostanziale ignoranza che la fa ambire.

Arrivando tardi ad un convegno un’addetta mi ha avvertito che non ero stato ancora «brifato». Sbalordito, sul momento, ho pensato ad una sorta di vaccinazione. Poi, scavando nel mio povero, ma sincero Inglese ho compreso che non avevo ancora ricevuto istruzioni (ilverboè to brief, informare). Siete «brifati»: era un convegno sulla scuola.

Ed è proprio dal mondo della scuola italiana che viene la più desolante notizia sul deperimento della nostra lingua e sul suo rinsecchirsi per l’aridità dell’insegnamento rassegnato all’inutilità e per il suo inquinamento costante con l’invadenza di neologismi inutili e ancora più inutili anglismi, peraltro, spesso, scorretti. La loquacità a volte inutile dele nomenclature usate dall’informatica dilagano.

L’Accademia della Crusca criticò con onesta durezza il Ministero dell’Istruzione per la disattenta condotta di salvaguardia della lingua italiana nelle scuole e nelle Università. Per sciatteria rassegnata e sbadigliante, nell’informazione e nella gergalità giornalistica nazionali, non si è neanche tentato di tradurre in buona lingua italiana il lessico tecnologico, specie nella parte inerente alla scienza informatica e all’uso dei nuovi media. A proposito, dicono «midia», con spocchia, tanti operatori della comunicazione forse perché aggiungendo il new si sentono più cosmopoliti, pur essendo solo ignoranti della circostanza che la definizione di Mac Luhan che conosceva il Latino, dal Latino è prelevata, e dire «Nuovi Media», non solo è più corretto, è anche più giusto.

Solo degli imbambolati burocrati, se sono in buona fede, possono pensare di paragonare l’ingente e fiorita generazione delle lingue neolatine a questa pigra e tetra omologazione in un unico idioma dell’ingente e affascinante varietà delle lingue umane. Mi aspetto che lo scrivano in quell’inglese arruffato e sciatto che usano ormai tutti e dovunque. Poi, magari, se aprissero un libro con le opere di Shakespeare, non riuscirebbero a comprendere e condividere quella poesia come un cittadino italiano che oggi dovesse leggere l’Ariosto o il Tasso o Goldoni. Invocare la contaminazione naturale e inevitabile delle lingue nelle reciprocità dei prestiti, nella vivacità dei confronti e della beneamate contaminazioni, è operazione furba, ma non bastevole a farci rassegnare alla sudditanza del grande capitalismo planetario che vede nell’omologazione di costumi culturali, nell’impoverimento basico di lingue e linguaggi, nella parificazione dei comportamenti, la base per la creazione dell’immane mercato unico governato dai sempre più ricchi e sempre meno numerosi e la moltitudine dei più poveri avidi delle stesse merci.

La specificità non è campanilismo o localismo difesi dalla particolarità, la specificità identitaria è ricchezza, è varietà e pluralità di percezioni ed espressioni del mondo. Nelle minuscole asperità della vita quotidiana si rilevano le contraddittorie difficoltà che il tempo moderno impone contro lo stare al mondo con agio. Pensiamo al pianeta inquinato, all’angustia delle architetture abitative, al traffico, allo scambio difficoltoso di merci e servizi, alla inospitalità mostruosa delle megalopoli. Al deperimento della politica come arte del possibile: ormai rinsecchita. Non aggiungiamo la cupa tristezza della parificazione coatta delle lingue e dei linguaggi. Nelle scritture ancora scricchiola il cantiere della Torre di Babele e la connessa stupidità dell’unica lingua che persuase Dio a chiuderlo per vanificare la presunzione di una umanità che balbettava lo stesso idioma. «Ecco, essi sono un solo popolo, ma hanno tutti una lingua sola; questo è l’inizio della loro opera e ora sarà loro possibile quanto vorranno fare solo se le genti inventeranno ognuna la sua lingua, perché si sforzino di comprendere l’uno la lingua dell’altro». Il Signore così li disperse di là su tutta la terra. Dio vide che la varietà delle lingue era cosa buona per popolare tutto il creato e anche per vanificare la presunzione assolutistica di una umanità robotica e presuntuosa asservita al padrone dei cantieri e delle torri.

«And God bless the polyglot sage man». E Dio benedisse i poliglotti sapienti.

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