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«Come scatole cinesi» Azienda cambia nome ma resta improduttiva

«Come scatole cinesi» Azienda cambia nome ma resta improduttiva

 
«Come scatole cinesi» Azienda cambia nome ma resta improduttiva

Giovedì 05 Dicembre 2013, 13:14

03 Febbraio 2016, 04:03

di MASSIMO BRANCATI

TITO SCALO - Non ha prodotto un solo spillo, ma in fatto di cambio di denominazione sociale è un portento. Ecco la Sinoro, la scatola cinese per eccellenza, il simbolo del fallimento della reindustrializzazione post-terremoto. Spacciata per il più grande investimento industriale cinese in Europa - che doveva recuperare gli impianti della ex Memofil e dare lavoro a circa 100 lavoratori della ex Marzotto - destinataria di 12 milioni di euro per gli impianti e oltre 800 mila euro per tre corsi di formazione, l’azienda continua a cambiare nome. In sintonia con la sua storia costellata da fallimenti e «resurrezioni»: prima Orop, poi Cripo, Sinoro, Beijin Diamend. E ora? Ora si fa chiamare Sinorop srl.

È l’effetto dell’ultimo fallimento datato 24 ottobre 2013 deciso dal tribunale di Potenza che ha nominato Alberto Di Bisceglie curatore fallimentare. La società - come evidenzia Pietro Simonetti, presidente del Cseres, è stata costituita a giugno scorso, quando la Sinoro non era stata ancora formalmente dichiarata fallita. Ennesimo tassello di un puzzle che non si riesce a decifrare fino in fondo. In questa girandola di nomi ci sono due costanti: l’impro - duttività della fabbrica e la presenza del ragionier Mauro Nardelli, amministratore unico dal ‘93 al ‘95 e poi amministratore delegato a partire dal ‘95 fino al ‘99 della Orop. Nardelli finì nel tritacarne dell’inchiesta giudiziaria legata al fallimento della stessa Orop: fu accusato di aver sottratto dall’attivo dell’azien - da una somma pari a circa 101 milioni delle vecchie lire, danneggiando naturalmente i creditori.

Il nome di Nardelli torna ancora oggi con la Sinorop, o come diavolo si chiama. È l’interfaccia italiana dei cinesi che fino a qualche tempo fa ripetevano che presto avrebbero «ripreso l’attività» (più che ripreso, cominciato, semmai). Tutto l’aspetto giudiziario della vicenda non si è ancora «esplicato» nella restituzione di quello che Simonetti definisce il «maltolto» del post-terremoto. Con l’incubo che, avendo cambiato nome - e con un labile refresh aziendale - la Sinorp torni alla carica per intercettare altri fondi pubblici. Sarebbe davvero una beffa. L’azienda non ha restituito un euro dei finanziamenti statali, continua a non produrre nulla, da 36 dipendenti ne ha in carico solo 7 (a fare cosa non si sa). È un caso in cui si annidano rabbia (quella dei lavoratori) e difficoltà nelle relazioni internazionali sull’asse Italia-Cina. E i silenzi che ruotano attorno al caso non fanno altro che alimentare sospetti su complotti e connivenze ad alti livelli. Non si sa, in particolare, che fine abbia fatto la procedura di revoca dei finanziamenti. Se fosse stata un’impre - sa italiana al centro di questa vicenda ingarbugliata di sicusicuro fisco e tribunali l’av re bb e ro «divorata».

I cinesi, invece, sembrano intoccabili. I lavoratori superstiti parlano di un intrigo internazionale sul filo Italia-Cina: «Lo Stato - dicono alcuni dipendenti che preferiscono mantenere l’anonimato per paura di ritorsioni - non fa nulla perché è ricattato dai cinesi. Ci sono affari ben più grandi rispetto ai 12 milioni che l’azienda dovrebbe restituire». Insomma, una questione di interessi di natura industriale - che toccano anche esportazioni e investimenti «bilaterali» - dietro all’«immobilismo» sul caso ex Sinoro? Intanto in Cina circolano gioielli con il marchio Orop (il «nonno» di Beijing Diamend) e la dicitura «made in Italy», fattore che, nell’Oriente innamorato della moda tricolore, alza il prezzo. E qui entrerebbe in gioco la fabbrica di Tito: è ferma, improduttiva, ma ai cinesi serve per giustificare l’«italia - nità» della sua offerta. Qualcuno parla di sconfinamenti nell’ambito Fiat, con la casa automobilsitica torinese - decisa a puntare al mercato cinese - che troverebbe porte chiuse qualora i rapporti tra i due Paesi s’incrinassero. Sospetti alimentati da episodi, circostanze, particolari. Come la mancata visita di un ufficiale giudiziario che in presenza di fallimento, in genere, è il primo a farsi vivo. O come l’indiscrezione di un notificatore di cartelle esattoriali che avrebbe visto all’interno della fabbrica alcuni operai cinesi intenti a manovrare macchinari (per produrre chissà cosa) mentre i dipendenti «ufficiali» restavano con le mani in mano.

Tasselli di un mosaico che ha i connotati di una truffa. Ma c’è un altro particolare che alimenta il sospetto di un’opera - zione finalizzata esclusivamente a incamerare fondi pubblici: per quale motivo qualcuno, dalla lontana Cina, ha deciso di venire a insediare un’industria orafa a Tito scalo, in Basilicata, dove non c’è un’industria dei metalli preziosi, manca la filiera e mancano le professionalità necessarie? Considerando il contesto «vergine» in cui è nato lo stabilimento (la zona, tra l’altro, è priva di subfornitori specializzati nel trattamento di metalli) c’è da chiedersi, a questo punto, quali difficoltà avrebbe potuto incontrare questa azienda se avesse, alla fine, aperto i battenti. Ma i cinesi i conti li hanno fatti bene. Non c’era alcuna intenzione di aprire. Solo di saccheggiare. Con la silenziosa complicità delle istituzioni italiane.

«In tutta questa vicenda - sottolinea Simonetti di cui riportiamo in basso un suo intervento - ciò che colpisce è la sfacciataggine con cui si persevera in questo imbroglio, perciò chiediamo che dopo tanti anni sia accertino definitivamente le responsabilità di chi ha prodotto questo disastro». Disastro sulla pelle di lavoratori: formati, utilizzati per altre mansioni e poi spediti a casa.
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