TARANTO - Sospeso dall’incarico perché, durante due interventi chirurgici, di fronte a complicazioni e con l’urgenza di intervenire, il primario, con tanto di guanti e mascherina già indossati ha chiamato in soccorso in sala operatoria il suo predecessore. Che, però, era in pensione da (ben) due anni. Posto che le due pazienti hanno portato a casa la pelle, fino a che punto un medico può agire, ignorando i «se» e i «ma» della sua professione? In sala operatoria qual è il confine tra l’etica e la deontologia? Ma soprattutto, se le cose non fossero andate bene, chi avrebbe pagato in quel caso?
La priorità di un bravo medico è quella di salvare la vita al suo paziente. Già, ma a quali condizioni? Esiste in sala operatoria un codice, un protocollo per la gestione dei casi più disperati? O si procede, come è accaduto nella Divisione di Ginecologia dell’ospedale di Manduria, convocando in piena emergenza un professionista sia pur stimato e di provata esperienza, ma da due anni fuori dall’organico di quell’ospedale perché già in pensione?
Protagonisti della vicenda, che apre l’ennesimo squarcio nelle ferite aperte della sanità pugliese e tarantina in particolare, sono due primari ginecologi: Bartolomeo Punzi, facente funzione della Divisione di Ginecologia dell’ospedale di Manduria, e il suo predecessore Paolo Di Mase. Sullo sfondo c’è la chiusura della Divisione di Ostetricia e Ginecologia di Manduria contro la quale, nelle scorse settimane, invano, la popolazione della cittadina messapica è scesa in piazza. Inutilmente: è stato chiuso qualche giorno fa.
Gli episodi finiti sotto la lente della Commissione disciplinare dell’Asl (che per il momento ha deciso di sospendere il dottor Punzi) sono due. Il 27 luglio una 39enne arriva in sala operatoria per una gravidanza che non si è formata in utero, ma è rimasta in una delle due tube. Durante l’intervento qualcosa va storto. Operare in laparoscopia non basta. Bisogna assolutamente rimuovere l’utero. La paziente rischia la vita. Il primario che la opera prende la sua decisione. «In considerazione della possibile necessità che potesse servirmi un terzo operatore specialista - dirà Punzi alla Commissione disciplinare -, e in considerazione del fatto che sapevo che il dottor Di Mase alloggiava a Sava, a pochi minuti dall’ospedale di Manduria, gli ho chiesto di raggiungermi in sala operatoria». Detto, fatto. La paziente si salva.
Il caso si ripete qualche giorno dopo. Il 10 agosto, in seguito a complicazioni di un parto con taglio cesareo, Punzi convoca in ospedale di nuovo il suo collega in pensione «stante - dirà in sua difesa -, la difficile immediata reperibilità di un altro specialista in zona».
Fatto salvo il risultato, la sopravvivenza delle due donne, a che titolo in quella sala operatoria di un pubblico ospedale intervenne un professionista che da due anni non ne fa più parte?
La vicenda sarebbe rimasta circoscritta alla direzione della Asl jonica se il dottor Di Mase non fosse pubblicamente intervenuto in difesa del collega. «Sento il dovere - ha scritto l’ex primario in una lettera alla Gazzetta -, di informare l’opinione pubblica della gravissima decisione della Asl di sospendere il dottor Punzi. Egli ha salvato la vita a due pazienti. Lo si accusa di essersi dimenticato di avvisare la Direzione sanitaria della mia presenza in sala operatoria, non tenendo in conto che il suo unico pensiero era quello di assistere le donne a rischio di vita. È stato punito con la sospensione - sostiene Di Mase -, quando avrebbe dovuto ricevere un encomio. Sospetto - ha concluso -, che la vicenda sia servita a giustificare la chiusura definitiva del reparto». Pur se di fronte alla vita o alla morte, vale sempre la regola che il fine giustifica i mezzi?
















