Esiste una sorta di linea gotica nella storiografia di Federico II. Il discrimine è costituito dalla celeberrima biografia dello Svevo di Ernst Kantorowicz comparsa nel 1927 e influenzata dal circolo politico radunato intorno a Stefan George che sognava una guida dalla forte tempra per il rilancio della Germania. L’ascesa di Hitler al potere nel 1933 infranse i sogni e i progetti del movimento della «Germania segreta». Al di là di questa ideale linea gotica troviamo i ritratti di Federico tracciati dal baltico Johannes Haller, docente a Tubinga nella prima metà del ‘900, e da Karl Hampe professore e rettore dell’Università di Heidelberg. Ambedue davano giudizi contrapposti sul ruolo dello Svevo nella storia della Germania.
Per Haller il rampollo degli Hohenstaufen «fu il primo straniero sul trono tedesco» sottacendo che egli era figlio di un imperatore teutonico, Enrico VI, anche se nelle sue vene scorreva per via della madre Costanza sangue siculo-normanno. Per Hampe Federico fu, invece, un imperatore tedesco a tutti gli effetti, anzi fu l’ultimo degli imperatori di Germania a meritare tale titolo. Tornando alla linea gotica kantorowicziana di cui si diceva prima, bisognerà attendere un settantennio per la comparsa di un’altra ampia e organica biografia di Federico II. Si tratta del profilo tracciato da David Abulafia, lo storico di Cambridge, attento alle vicende italiane e mediterranee ben oltre l’età sveva, edito a Londra nel 1988 e in traduzione italiana due anni più tardi.
La biografia abulafiana dedicata allo Svevo è stata definita l’opposto di quella redatta dal Kantorowicz (1927) che faceva dello Svevo «il primo genio rinascimentale» che aveva cinto «l’autentico diadema dei cosmocratori». L’esatto contrario di quanto sostiene Abulafia che presenta Federico II come un sovrano del tutto normale il quale non avrebbe introdotto alcun elemento di rilievo nell’esercizio della sovranità, anzi, per quanto riguarda il Mezzogiorno, del tutto privo degli slanci innovatori dei suoi antenati normanni, incline a distruggere la «feconda coesistenza tra cristiani, musulmani ed ebrei in Sicilia», sfruttatore delle risorse economiche del Regno: insomma un «solido conservatore» aduso a far valere la forza repressiva del potere e non la pacifica coesistenza dei suoi sudditi. La seconda biografia è quella in due volumi di Wolfgang Stürner riproposta di recente in un’accurata edizione italiana di cui abbiamo data notizia su queste colonne.
La terza è comparsa direttamente in lingua italiana nel 1998 ad opera di Pierre Racine, indagatore sagace dell’Italia padana. Non certo dello stesso livello, rimanendo in ambito francese, si può ritenere il ponderoso volume dedicato a Frédéric de Hohenstaufen ou le rêve excommunié scritto da Jacques Benoist-Méchin comparso a Parigi nel 1980. E il filone della memoria federiciana non si arresta alla coincidenza dell’VIII centenario della nascita e ai 750 anni della morte: date intorno alle quali ruotano le biografie dianzi citate.
Ora se ne aggiunge un’altra, contenuta nel numero delle pagine ma densa di problemi e ricca di prospettive secondo le più accreditate esperienze storiografiche sorte intorno alla figura dell’imperatore in questi ultimi anni. Ci si riferisce al Federico II. Imperatore, uomo, mito uscito tre anni fa in Germania ora in traduzione italiana per il Mulino di Bologna. L’autore, Hubert Houben, è docente ordinario di Storia medioevale nell’Università del Salento, ormai terra di elezione dove, giovane borsista di una Fondazione tedesca, iniziò con chi scrive il suo cursus honorum che ora lo vede tra i maggiori storici europei del Medioevo. Il sottotitolo ha fatto accostare, dal punto di vista metodologico, il modulo biografico redatto da Houben dell’imperatore svevo, al ben noto profilo di Luigi IX scritto da Jacques Le Goff, cioè all’utilizzazione di una pluralità di specole attraverso le quali cogliere nella sua globalità il personaggio senza ricorrere all’altro espediente tecnico per lavori di questo tipo costituito dal sistema combinatorio delle fonti.
Un unico soggetto quindi, ricavato da tre punti di osservazione, che approdano al recupero integrale - semmai di recupero integrale si possa parlare nella ricostruzione di una vicenda esistenziale lontana nel tempo e nello spazio - o più pertinentemente di larga approssimazione di un personaggio complesso, fermo nell’azione di governo ma cangiante a fronte dei problemi entro i quali si vedeva volta a volta avviluppato. Houben non si lascia sedurre dal fascino, peraltro innegabile, del grande Svevo che realizzò l’unione del Regno meridionale all’Impero e cinse ben cinque corone da quella di Sacro Romano Imperatore alle altre di re dei Romani, di monarca siculo, di re di Gerusalemme e di Arls. Basti soffermarsi sui «bilanci» che Houben redige a conclusione del tripartito ritratto di Federico che dal punto di vista della realtà dell’impero esplicita i limiti di un esercizio di potere di caratura universale; dal punto di vista delle qualità umane mette in giusto risalto le qualità del personaggio ricco e imprevedibile e, infine, dal punto di vista del mito coglie una triplice motivazione di questa proiezione metastorica: il suo essere «spauracchio, portatore di speranza, icona regionale». E in quest’ultima dimensione non si può prescindere dall’autogenesi del mito che egli stesso creò definendo Jesi la «nostra Betlemme» e, quindi, Messia e lasciando credere alla sua sopravvivenza nel giorno del giudizio. La polarizzazione dei due termini Messia e Anticristo arricchirà via via la funzione metatemporale del personaggio che, invece, nel suo testamento dettato in punto di morte nella domus di Castelfiorentino nell’alta Capitanata denuncerà la fragilità della condizione umana come peraltro lo aveva ammonito Michele Scoto dichiarando che «la morte è un calice al quale sono costretti a bere tanto lo scienziato quanto l’ignorante».
















