Dimmi come saluti e ti dirò chi sei. E siccome dilagano pessimo gusto e cattiva educazione, ecco partire ovunque una disgustosa batteria a salve. Incontri qualcuno in ascensore, in palestra, in strada, al bar, al cinema: non si scampa a un “salve” a tradimento come una fucilata. Volendoti far capire che, non avendo io potuto evitare il fastidio di trovarti davanti ai piedi, ti punisco con quella che il grande scrittore Guido Ceronetti definì una parola fredda e sgraziata, buttata là con svogliatezza e noncuranza. Addirittura con repulsione, come se fosse un muro contro cui farti sbattere. Maestri soprattutto i giovani, tanto schifati quanto altezzosi nel loro razzismo generazionale. Anzi soprattutto le ragazzotte tutte “non mi toccare” perché dotate di qualche attributo anatomico di sopravvalutata importanza.
Né è il caso di imbarcarsi, tanto per curiosità, nella spiegazione della etimologia del salve, insomma che significa. Per sapere che proviene dal latino, voleva dire “salute a te” nel senso di stare bene, ed era una formula augurante di ingresso non di commiato, come viene all’ingrosso usato oggi (quand’anche ci fosse ancòra chi distingua un ingresso, cioè un incontro, da un commiato, cioè un lasciarsi). Figuriamoci se dicono salve per augurarti che ti passi il raffreddore o che non soffra più di stitichezza, più probabile che vogliano vederti sotterrato al più presto. Sono salve che neanche ti guardano in faccia. Ché se fossero accompagnati da un sorriso, un ammiccamento, anche occhi negli occhi, sarebbe altra storia, sarebbero dei salve che conservano ancòra qualcosa di umano.
Ci vorrebbe lo spirito urticante di quel ragazzo romano che, quando gli dicevano salve, rispondeva: “ma che sei, ‘no zerbino”?, il tappetino davanti alla porta di casa sul quale spesso è scritto appunto salve. E’ questa salvite che ha fatto piazza pulita dei buongiorno, buonasera o buon pomeriggio oggi più improbabili di un calciatore non tatuato. Considerati evidentemente troppo confidenziali e caldi, non “sgradevolmente infami” come i salve. Il primo che nel giro di una settimana ne ascoltasse qualcuno, è pregato di segnalarlo all’Onu perché sia protetto come un tesoro archeologico.
Semiscomparso, per fortuna, l’addio, anche se non manca in qualche sedicente intellettuale intriso più di presunzione che di buona letteratura. Addio si dice per darsi le arie. Ma è saluto di rottura totale, da scene madri di amori finiti o di lettere di suicidi. E non raramente accompagnato da discreto ricorso a rituali di scongiuro sempre più unisex come le mani al basso ventre.
E infine ma non ultime le presentazioni, quelle un tempo accompagnate da un “piacere” e una stretta di mano, anch’essi in moda calante. Piacere è di sicuro da vecchi, la mano un po’ meno. Si dice piuttosto “come va?”, o “tutto bene?”: per lo scrittore Corrado Augias ridicola italianizzazione dell’inglese “How do you do?”, appunto “come va?”, tanto non è che uno si mette a raccontare che gli è spuntato un brufolo sul naso. Ma sa tanto di film americani in cui uno sta esalando l’ultimo respiro sul selciato e un altro lo rassicura che va tutto bene. Del resto su Facebook si scrive “mi piace” anche per gli annunci di morte e a questo punto non ne parliamo più, è tutto da rifare. Salve.
















