«Quando ho più idee degli altri, do agli altri queste idee, se le accettano, e questo è comandare». Ricordate? È una proposizione tratta da Il barone rampante di Italo Calvino. Non mancheranno i lettori di buona memoria. E, tra questi, sono certo che possano esserci molti cittadini foggiani e, magari, alcuni dei mille elettori di Foggia che hanno concesso, non ricordo più in quale contesa elettorale, la preferenza al signor Landella Francesco, per gli amici, tanti un tempo, oggi assai pochi, immagino, Franco, ormai ex sindaco di Foggia, arrestato per una indagine grave su reati di concussione e corruzione nell’esercizio della sua funzione di amministratore della città.
Rispettiamo «l’iter giudiziario» e ci serviamo del prudente usbergo dell’uso del condizionale. Il nostro giornale, ieri (oggi, mentre scrivo) ha puntualmente denunciato l’affare giudiziario, con ogni spudoratezza eventuale e da dimostrare, nell’evidenza della prima pagina.
Il reato di cui è indagato è grave, ma, anche, greve, visto che sarebbe implicata nella sua attuazione continua anche la moglie di Landella, Franco, per gli amici. Ce ne sono un paio che, più che amici, sembrerebbero complici, visto che i loro nomi figurano nell’elenco degli indagati. E anche la signora del primo cittadino sarebbe coinvolta nelle vicende del malaffare inquinante la amministrazione della città di Foggia. Questo particolare fa venire in mente il terribile «tengo famiglia», attenuante volgare e proterva che ricorda le prodezze del familismo amorale. Insomma, ci troviamo alle prese con lo squallore del malaffare immerso nella amministrazione della cosa pubblica e, dunque, è squallore cupo e triste. La fotografia immortala una scheggia mondana della coppia.
Sarei curioso di conoscere quali idee siano state elargite dal Landella nelle campagne elettorali che hanno segnato la sua carriera, il nerbo della sua linea politica un poco bighellona e del suo approdo nella Lega. E come abbia esercitato l’arte del comandare che ne sarebbe conseguita nel suo concedere al prossimo l’usufrutto delle sue buone idee. Se ha ubbidito all’ammonizione calviniana.
Comandare. Che parola difficile. Chi non ricorda l’inerziale considerazione che «comandare è meglio che fottere»? Il termine «fottere», triviale e dialettale è rifiutato dal mio programma di scrittura col computer il quale, automaticamente, lo cambia in sfottere. Com’è pudico il mio programma di scrittura! Troppo, visto che il termine è italiano, italianissimo e, sia pur per incerti percorsi, deriva dal latino. E sfottere, scrutino nel vocabolario, sempre da fottere viene, anche se vuol dire altro, vuol dire prendere in giro, prendersi gioco di qualcuno. Non ritengo utile spiegare oltre il significato del lemma. Dirò, con pudicizia che «comandare sarebbe meglio che fornicare». «Far l’amore» mi sembra improprio. Chi sa che cosa ne pensa l’ex sindaco!
Forse, secondo me, è questa la risposta alla sconsolata illusione di Calvino, scrittore italiano, italianissimo e di lingua pregiata, ma non alieno dalla conoscenza dei vernacoli e del parlar popolare, il quale spiega cosa potrebbe essere il comandare e, cioè, la condivisione alta dei saperi e delle esperienze, il considerare la politica come mestiere onesto da espletare al servizio del prossimo più vasto e numeroso, ma, sconsolato, non s’esprime circa il celebre primato: se sia vero, cioè che l’esercizio del comando sia da preferire ad altri esercizi più, generalmente, piacevoli e meglio noti nel breviario come fornicazione.
È il desiderio di comandare, dunque, che sospinge con forza tanta gente a competere nelle elezioni? E sì, perché non si rintraccerebbe altro motivo per spiegare come mai tanti si affardellino fino allo spasimo di fatiche, spese, manovre acrobatiche per riuscire eletti nelle competizioni della politica. Compreso l’ex sindaco di Foggia cui sono contestati reati vari, tutti attinenti allo sfruttamento della sua posizione politica a onde arricchirsi illecitamente. E mercanteggiando spudoratamente. Sempre col condizionale, s’intende.
Non si spiega altrimenti, infatti, che cosa giustifichi il tremendo lavorio almeno che non si tratti di spirito di servizio, di dedizione alle cause, di voglia di prodigarsi per gli altri esercitando il supremo compito della politica quando, per politica, s’intenda il lavorare per amministrare, governare per il bene altrui e, per questo, spendersi. E questo, allo stato delle indagini, purtroppo, sembrerebbe da escludere. Il racconto sintetizza su questo giornale una squallida vicenda di pessima lega. Lega. L’uso della parola è voluto e intenzionale con la sua ambigua duttilità d’impiego che mi esonera dall’avventurarmi nel riassumere il cursus «politico» (si fa per dire) del Landella.
Agli elettori di Foggia, lettori di Calvino o meno che siano, mentre suggerisco di leggere o rileggere Il barone rampante, ricordo che hanno un sistema per saper distinguere i bighelloni assetati di potere i quali, evidentemente, ambiscono comandare perché l’alternativa sessuale è periclitante o dubbia o per altre ragioni indecenti come arricchirsi, tramare, lucrare, per saperli distinguere, dicevo, dai servitori disinteressati della democrazia. Suggerisco di rifarsi al passo citato: «Quando ho più idee degli altri, do agli altri queste idee, se le accettano; e questo è comandare». Per il futuro, i cittadini foggiani, riflettano. E facciano caso alla particolare condizione del signor Landella Franco, il quale avrebbe coinvolto sua moglie negli affari loschi che gli vengono imputati. E la signora Landella è una funzionaria del Comune di Foggia. Dunque, i suoi moventi erano squisitamente finanziari, ragioni economiche, ricatti e concussioni arruffate da mercanteggiamenti indecenti? Alla Giustizia il compito di stabilirlo. Ai cittadini, subito dopo resta il diritto di riservare a questi marpioni che considerano che comandare sia meglio che «fottere» al punto da spendere e spandere per conservarsene il privilegio, una sonora pernacchia. Spesso «sfottere» è meglio che comandare.
















